Per rispondere al calo di donatori che stiamo registrando negli ultimi tempi, è fondamentale che…
Ha ben ragione Stefano Magnone, segretario lombardo di Anaao-Assomed, quando dalle pagine de L’Eco di Bergamo del 18 maggio, sollecita tutta la politica regionale affinché, superate le contrapposizioni tra le parti, si sieda insieme ad un tavolo e si impegni davvero una volta per tutte per salvare il servizio sanitario.
Ha ragione tanto nell’obiettivo da perseguire quanto nel metodo da utilizzare. E se il primo credo sia condiviso, il secondo lo è molto meno; fino ad oggi, infatti, la maggioranza di centrodestra che governa la Regione da oltre venticinque anni ha faticato a riconoscere, almeno pubblicamente, le criticità presenti in Lombardia, conseguenza non solo di errori di pianificazione a livello nazionale (sul fronte della formazione e assunzione di medici e infermieri) e di sottofinanziamento del sistema sanitario (siamo ancora oggi a circa il 6% del PIL), ma anche di scelte organizzative regionali che – a partire dalla legge regionale n. 31 del 1997 (Formigoni) fino ad arrivare alle riforme del 2015 (Maroni) e del 2022 (Fontana) – non hanno saputo governare l’offerta sanitaria sulla base degli effettivi bisogni della popolazione, con la convinzione (errata) che, come in un qualsiasi altro libero mercato, senza porre indicazioni, vincoli e limiti, l’offerta si sarebbe di fatto ‘plasmata’ sulla domanda.
Non è andata così e oggi i lunghi tempi di attesa, in particolare per le prestazioni sanitarie meno remunerative, l’affollamento dei pronto soccorso per via del ridimensionamento della medicina territoriale e dei servizi prima presenti nelle comunità locali, la rinuncia alle cure che nella nostra provincia coinvolge circa il 7% della popolazione, l’aumento delle disuguaglianze per accedere a visite, esami e terapie soprattutto nelle aree interne e l’incremento della spesa pro capite (out of pocket) per prestazioni sanitarie evidenziano la necessità di invertire velocemente la rotta e mettere in salvo il sevizio sanitario così come era stato concepito nel 1978 da Tina Anselmi: universale ed equo.
Per fare questo serve uno sforzo collettivo, una nuova alleanza non solo tra le istituzioni ma soprattutto tra le istituzioni e i professionisti della sanità e del welfare, per individuare le priorità da affrontare oltre che per ridare loro dignità, cosa che si può fare solo a partire da un adeguato riconoscimento economico e con una organizzazione del lavoro che riporti a livelli accettabili il carico fisico e mentale dei lavoratori.
Oltre a ciò, per sostenere una migliore qualità nella presa in carico dei pazienti negli ospedali, bisogna rafforzare i presidi sul territorio e revisionare la rete ospedaliera; in carenza di personale, è infatti necessario riprogrammare l’offerta sanitaria in una logica di rete, dove gli ospedali devono essere luoghi di specializzazione e acuzie mentre i presidi territoriali possono e devono diventare riferimento per la prevenzione, il post acuzie e la presa in carico delle cronicità.
Fondamentale poi che la Regione – che ha in capo la gestione delle risorse economiche – si riappropri del suo ruolo di governo e di regia, ponendo nei futuri contratti con le strutture ospedaliere vincoli e limiti chiari e trasparenti per fare in modo che le prestazioni erogate rispondano sempre di più ai veri bisogni dei cittadini e non ad altre priorità.
Aderenza ai bisogni reali, dignità dei professionisti sanitari, sanità territoriale ed evitare il sovraccarico degli ospedali e regia del ‘pubblico’ per governare al meglio le risorse sono gli obiettivi da perseguire.
Solo così, in un contesto in cui le risorse umane ed economiche scarseggiano, una nuova visione accompagnata dalle necessarie riforme può davvero rendere concreto il concetto di appropriatezza (sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta) di cui da anni si parla ma che è ancora lontano dal realizzarsi.
